L’errore è un’esperienza universale che non può prescindere dall’essere umano, pertanto è stato – ed è tuttora – oggetto di studio di grande interesse per la psicologia. Già Freud se ne occupò con la sua opera Psicopatologia della vita quotidiana (da non confondere con l’opera di Norman, da cui sicuramente si è ispirato, e di cui abbiamo già ampiamente parlato!), raccogliendo numerosi casi relativi ad errori commessi quotidianamente nel parlare, nel ricordare, nell’agire, relazionandoli alla presenza di impulsi repressi nell’inconscio. Chiaramente da allora la psicologia ha fatto notevoli progressi, passando dall’analisi dell’inconscio a quella dei processi cognitivi da cui deriva l’azione errata.

Errori e conseguenze

Ogni nostra attività può essere analizzata dalla prospettiva dell’errore, perché il fallimento può manifestarsi nel percepire, nel ricordare, del decidere o nell’agire.

L’errore di per sé  non ha nessuna carica negativa. Facciamo un esempio: abbiamo appena acquistato una cucina a gas nuova, e non riusciamo a capire quale manopola utilizzare per accendere un determinato fornello; le conseguenze di un tale errore sono praticamente nulle, ma se succedesse la stessa cosa con una manopola che gestisce gas tossici all’interno di una centrale nucleare? Eppure l’azione eseguita è la stessa. Sono quindi le circostanze in cui un evento si verifica che generano i risultati negativi, non i processi mentali in cui si sviluppa l’errore.

Errare è anche un passaggio fondamentale nel processo di apprendimento, perché permette di ricevere feedback dall’ambiente rispetto al proprio comportamento, ed è così che possiamo cambiare e crescere.

La finalità degli studi di psicologia in questo ambito è quello di evitare il ripetersi di eventi catastrofici, per la quale sono stati elaborati diversi modelli di analisi degli incidenti, ma per questo argomento vi rimando al mio precedente articolo Quando errare è umano.

Il carico di lavoro mentale

Veniamo invece a quelli che sono i limiti del cervello umano: è risaputo che gli esseri umani possiedono risorse limitate per l’esecuzione di un compito, e che diversi compiti richiedono differenti quantità – e  qualità – di queste risorse.

Se pensiamo all’espressione “carico di lavoro mentale”, la prima cosa che ci viene in mente è la stanchezza che ci viene, per esempio, dopo un’intera giornata passata a a studiare; in sintesi, la “fatica mentale” avvertita dopo un grosso sforzo cognitivo. In realtà questo è solo l’effetto di questo fenomeno. 

Esistono almeno quattro fattori sulla quale può essere definito il carico di lavoro mentale:

  • Richieste imposte dal compito: se difficoltà, numero, frequenza e complessità delle richieste aumentano, si assume un aumento delle del carico di lavoro.
  • Livello di prestazione che l’operatore riesce a raggiungere: all’aumentare degli errori o al diminuire della precisione del controllo esercitato, il carico di lavoro aumenta.
  • Sforzo esercitato dall’operatore per eseguire il compito: il carico di lavoro rifletterebbe la risposta dell’operatore al compito, piuttosto che le richieste imposte.
  • Percezioni dell’operatore: se un operatore si sente sotto sforzo e sovraccaricato, il carico di lavoro può aumentare.

Il carico di lavoro mentale rappresenta un problema non solo quando è troppo elevato, ma anche quando è troppo basso! Infatti quando il carico di lavoro è troppo alto, i decrementi nella prestazione derivano dall’incapacità dell’operatore di far fronte alle richieste del compito; ma al contrario, quando è troppo basso, il peggioramento della prestazione emerge a causa della noia e dei cali nel livello di attenzione.

Diventa di fondamentale importanza quindi una corretta ottimizzazione del carico di lavoro mentale per ridurre le possibilità di errore umano e aumentare la sicurezza, la produttività e la soddisfazione dell’operatore.

Spero che questo articolo vi sia servito da chiave di lettura, nonchè da approfondimento, sui miei precedenti articoli su errore umano ed ergonomia cognitiva! Al prossimo articolo!